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Gli operai non votano più il PD

L’altro giorno davanti all’edicola del mio paese ho incrociato quattro operai. Per chi, come me, non frequenta i social, era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Dei due che hanno votato, nessuno ha votato il Pd.  È solo l’ultimo di tanti esempi che ci dicono una cosa chiara: il Pd deve assumere una dimensione popolare che ha perduto da tempo.
 
Ad un’iniziativa di campagna elettorale di presentazione dei candidati mi sono rivolto al segretario cittadino, un amico, avvocato, così: vedi, la maggioranza relativa dei presenti è un avvocato. È un bene che ci siano molti laureati nel partito, è un male che ci siano pochi lavoratori. Di più. Quanti di questi nostri ammirevoli militanti, per non dire dei dirigenti, ha problemi per giungere alla fine del mese?
Questa non è demagogia. È guardare in faccia la realtà.
 
Da anni l’unica domanda che in molti conta è: cosa farò io?
O estirpiamo questa patologia od ogni sforzo congressuale, breve, medio, lungo, sarà inutile.
 
Mi scuso se sto volando basso.
 
In realtà sono rimasto colpito dalla sottovalutazione dei temi geopolitici. Sia in campagna elettorale che nelle analisi post voto.
Per questo ringrazio Letta per le riflessioni di oggi sul tema.
Eppure quella è la madre di tutte le battaglie. Della vittoria della destra, che vince ma non sfonda. Rappresenta il 28% degli italiani.
E delle sconfitte della sinistra. Ieri in Svezia, oggi in Italia, domani, temo, in Spagna.
Certo che se l’unica idea della sinistra europea, riunitasi finalmente a maggio, è stata quella di proporre l’ingresso nella Ue della Macedonia del Nord, è un po’ difficile possa parlare alle paure dei popoli europei.
 
La riflessione sull’astensione, oltre il 36%, e’ durata dieci secondi. All’undicesimo era già stata archiviata.
 
Noi siamo stretti in una tenaglia. Abbiamo bisogno di una fase costituente vera che richiede, inevitabilmente, tempi adeguati.
E di scelte sulle regionali, sugli assetti parlamentari, sull’opposizione da organizzare, che richiedono decisioni tempestive, comunque incompatibili con i tempi congressuali.
Non è che discutiamo in una camera iperbarica: c’è la guerra, la crisi economica, le bollette, il Covid.
 
Intervengo raramente in Direzione. Consapevole dei rischi che correvamo, attacco sul fronte “sinistro” del M5S e sul fronte “destro” di Calenda e Renzi, nel maggio scorso ero intervenuto per avanzare una proposta. Mettiamo a punto due paginette di programma su lavoro, energia, ambiente, scuola, sanità, giustizia e sottoponiamole al confronto con tutti coloro che si oppongono alla destra. Tutti. Anche per sottrarre il confronto ad infantili personalismi. La proposta non ha avuto fortuna.
 
Così come quella di porci una domanda clou: perché, nonostante i brillanti risultati alle amministrative, in Lombardia, dal 1995, alle regionali si perde sempre?
Non dico sia facile trovare la risposta, ma se non ci facciamo la domanda..
“Abbiamo vinto al comune di Monza, vinceremo le regionali. La Lombardia ora è contendibile”. Capisco la propaganda, ma insomma.
 
Ad Alessandro Alfieri, che oggi ha espresso giudizi severi su Renzi, con amicizia, chiedo, in quanto segretario regionale che diresse la sfida nel 2018, di spiegarci nel congresso le ragioni di quella batosta, nonostante avevamo candidato a Presidente un sindaco capace e stimato.
Al Sud non vinciamo nemmeno un collegio. In Lombardia, dieci milioni di abitanti, si torna al 1994 nonostante il bel risultato della città di Milano. Nell’area pedemontana, una delle potenze produttive del Paese, il Pd è al 16,4%. Nel Veneto al 15%.
A numerosi esperti di Nord ricordo che, posto che l’Emilia fa storia a se’, in Piemonte, Liguria, Friuli, Valle D’Aosta, il centrosinistra alle regionali ha vinto più volte. In Lombardia e Veneto, 1/4 della popolazione italiana, dal 1995 MAI. Faccio un’affermazione forte: questo voto rende complicato mandare un messaggio nazionale unificante. Vale anche per il futuro governo.
Ciò, allora, rende più stringente la necessità di darci un’identità chiara e un profilo riconoscibile. A Sondrio come a Lampedusa.
 
Dal 1990 i lavoratori italiani hanno perso potere d’acquisto. I tedeschi e i francesi lo hanno aumentato di oltre il 30%.
Chi e perché ha sabotato le iniziative del Ministro del Lavoro in questo campo?
 
Purtroppo sul contrasto alle disuguaglianze non siamo risultati credibili.
 
Sulle correnti. Nel maggio 2007, in un convegno sul federalismo a Roma, con l’indimenticabile Alfredo Reichlin e il mio amico Roberto Maroni, dissi che non avevo alcuna stima per quei miei compagni di partito che erano dalemiani, veltroniani o fassiniani, a secondo di chi era il segretario nazionale. Non ho mai cambiato idea. Tanto più nel Pd. Questo è uno dei punti che dovremo affrontare per stroncare i trasformismi.
 
C’è da riflettere sulla forma partito. Sul ruolo delle multinazionali in Europa in tempo di guerra. Su inflazione/recessione. Sulla nuova fase del capitalismo e sul modello di sviluppo che ha fatto prevalere la finanza sul lavoro.
 
Sui giovani. È vero o no che la maggior parte dei nostri ragazzi ce l’ha fatta, o ha alle spalle famiglie solide, mentre non c’è traccia nelle nostre riunioni di disoccupati e precari?
 
Temi ostici che non possono essere risolti con una pur brillante mozione congressuale. Temi e nodi che vanno, finalmente, sciolti.
Affrontare tali questioni, sollecitando l’apporto delle migliori energie interne ed esterne al Pd, è la condizione per realizzare una forza autenticamente progressista e popolare di cui, oggi, l’Italia è priva. Ci vuole coraggio e il tempo necessario. Anche promuovendo adesioni individuali e collettive nei luoghi più vitali del Paese.
 
Per sciogliere i nodi irrisolti del Pd forse ci vorrà la corrente di chi vuole bene al Pd e ai lavoratori, che vuole contrastare le ingiustizie, che vuole combattere la povertà e non il benessere.
Parlando non di noi, ma del futuro dell’Italia.
 
Il Pd che verrà, deve essere il partito del cambiamento, non quello della difesa dello status quo.
 
Daniele Marantelli
da La Prealpina, 10 ottobre 2022
 

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