Quella sera del 10 giugno quando Nando Martellini, telecronista Rai, annunciò la formazione dell’Italia che scendeva in campo contro la Jugoslavia per la finale degli Europei di calcio, il cuore mi batteva forte.
Mio padre detestava il calcio. Lo considerava l’oppio dei popoli. Si sbagliava. Discutevo con lui tutte le sere di politica. In quell’anno, il 1968, erano accaduti fatti intensi fin lì. Il 5 gennaio Dubcek salì al potere e diede il via alla Primavera di Praga. A fine gennaio iniziò l’offensiva Nord-Vietnamita. Il primo marzo ci furono scontri fra studenti e polizia all’Università di Roma che diedero il là alle occupazioni in molti atenei italiani. Il 4 aprile venne assassinato a Memphis Martin Luther King. Con un’imponente manifestazione di 800.000 persone, a Parigi sbocciò “il maggio francese.” Il 5 giugno fu assassinato a Los Angeles Bob Kennedy. Discussioni infinite sul mondo, i valori, il lavoro, la religione, la libertà, la pace.
Sul calcio e sul suo valore sociale mio padre non ha mai incrinato le mie certezze. Davanti alla Tv e alle sue immagini in bianco e nero ero solo. Da poco si era conclusa la prima delle quattro stagioni che avrei trascorso nelle formazioni giovanili del Varese. Anni irripetibili, grazie al patron Giovanni Borghi. Per capire il livello di quell’epoca d’oro cito un allenatore e un calciatore, sinonimi di carisma: Nils Liedholm e Armando Picchi. Provai orgoglio e felicità alla lettura della formazione azzurra. In attacco Gigi Riva e Pietro Anastasi. Quella sera non potevo immaginare che sarebbero diventati dei simboli. Prevaleva il timore che, dopo la vittoria dei mondiali del 1938, continuasse la tradizione dell’Italietta sempre sconfitta ed eliminata, come era accaduto anche ai mondiali in Inghilterra nel 1966, addirittura dalla Corea. Timore infondato perché dopo mezz’ora di gioco la Jugoslavia si trovò sotto di due goal. Proprio Riva al 12’ e Anastasi al 31’ furono gli autori del doppio vantaggio azzurro.
Riva è stato soprannominato “Rombo di tuono.” Con ciò mettendo in luce soprattutto la sua forza fisica e il suo tiro potente. In realtà per fare goal a grappoli devi avere una tecnica sopraffina. Dopo dodici minuti, stop di esterno e pallone calciato di sinistro a pochi centimetri dal palo. Resta tutt’ora l’attaccante, dalle eleganti movenze, dall’elevazione esplosiva , quindi fortissimo colpitore di testa, che ha segnato più reti in Nazionale, 34, nonostante i tremendi infortuni subiti. Dal bellissimo paesino di Leggiuno, dopo un’infanzia dura per la prematura scomparsa dei genitori, fu acquistato nel 1962 dal Legnano per passare nel 1963 al Cagliari e rimanervi sino a fine carriera. Se Gianni Rivera è stato il mio idolo calcistico, Gigi Riva è stato molto di più. È il calciatore/persona che ho maggiormente ammirato. Il 6 ottobre 1968 ho sofferto quando al Franco Ossola, prima dell’incontro tra Varese e Cagliari, fu fischiato dai tifosi biancorossi. Un campione così, che viene dalla nostra terra, non si fischia. Finì 6 a 1 per il Cagliari. “Rombo di tuono” segnò tre goal. Chissà, forse proprio per reagire a quell’accoglienza così ingiusta. Fu l’unica volta che la sconfitta del Varese non mi procurò dispiacere. Non ha mai lasciato Cagliari, nonostante opportunità economiche molto vantaggiose. Ha sempre rifiutato le lusinghe dei potenti. Comprese quelle politiche. Per questo il popolo sardo, che ammiro per la sua gelosa autonomia, lo ha adorato e lo adora. Un simbolo per loro. Un simbolo per me. Un esempio per i giovani.
Pietro Anastasi venne al Varese nel 1966 e accese la fantasia dei tifosi con dei “numeri” che prima di allora non avevano mai visto. Un ragazzo siciliano che scaldava i cuori dei tifosi del Nord. Fu trasferito alla Juve dopo averle rifilato 3 goal in un fredda giornata di febbraio che, a Masnago, terminò con un memorabile 5 a 0. A Torino è diventato il simbolo del riscatto di molti operai del Sud che avevano lasciato le loro terre e i loro cari per lavorare alla Fiat. Quella sera di 50 anni fa concluse un’azione bellissima, iniziata dal portiere Dino Zoff. Assist di De Sisti, grande centrocampista e persona straordinaria, ad Anastasi che, spalle alla porta, si inventa uno scavetto che alza la palla e, senza farla cadere, la calcia in semirovesciata a fil di palo. Fantasia, tecnica, coraggio. Anche per questo fu soprannominato il “Pelé bianco.” Per la Jugoslavia è notte fonda. Affondata da un ragazzo siciliano di vent’anni che ci spinge per la prima e unica volta sul tetto d’Europa. Avremmo vinto i mondiali a Madrid nel 1982 e a Berlino nel 2006. Giornate esaltanti, ma campioni europei mai più. Proclamare rinnovamenti a colpi di ringiovanimento, in ogni campo, come fosse una scoperta di questi tempi, fa sorridere. Mezzo secolo fa un ventenne è convocato in Nazionale, gioca e segna un goal in una finale degli Europei. Davanti agli inglesi campioni del mondo, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia, poi cancellate dalle cartine geografiche. Riflettano i calciatori coccolati e super pagati di oggi e i loro procuratori, allenatori, dirigenti. Fuori dai mondiali, con un danno incalcolabile ai sogni di bambini e ragazzi che non potranno tifare i colori azzurri in Russia. La sera del 10 giugno ci offre uno spettacolo anche a fine partita. Sugli spalti dell’Olimpico i tifosi bruciano i quotidiani trasformati in torce che illuminano la notte e creano un’atmosfera magica, uno scenario mai più rivisto.
Ho avuto modo di assistere insieme ad Anastasi, sempre accompagnato dalla sua amatissima moglie Anna, a molte partite del Varese. Che piacere intenso scambiare pareri con chi ha sempre mantenuto un attaccamento particolare ai colori biancorossi. In questa giornata speciale vorrei mandargli un abbraccio affettuoso.
L’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Europa. I paragoni fra campi diversi sono sempre rischiosi. Resto un convinto sostenitore degli Stati Uniti d’Europa, sognati da Carlo Cattaneo e rilanciati da Altiero Spinelli. Tanto più oggi di fronte ai grandi attori della storia contemporanea e di quella che verrà: Cina, Stati Uniti, India, Russia. Se l’Italia vuole essere protagonista di un nuovo e pacifico orizzonte europeo federale e dei popoli, dovrebbe far conoscere alle giovani generazioni la storia sportiva e personale di Gigi Riva e Pietro Anastasi. Da lì si possono attingere valori come lealtà, onestà, coraggio, forza, fantasia. Talento e gioco di squadra. Insieme. Sempre. Valori necessari anche per un calcio italiano migliore e per una società migliore. Il rischio, altrimenti, è quello di un’Italietta neonazionalista. E i nazionalisti, per loro natura, non si alleano. Riva e Anastasi sono anche l’esempio, attualissimo, che il futuro di un bambino non può dipendere solo dal luogo di nascita. Catania e Leggiuno ieri. Una torrida favela brasiliana o uno sperduto e freddissimo villaggio nepalese, oggi.
Non si deve vivere di ricordi, ma chi non ricorda e ignora la gratitudine, ai ragazzi, tifosi o no, non trasmette passione e ideali, ma solo un arido e tristissimo opportunismo.
Sarebbe bello, invece, che le nostre massime Istituzioni, sportive e politiche, superando colpevoli sottovalutazioni, trovassero i modi e le forme per esprimere profonda gratitudine a quei ragazzi che il 10 giugno 1968 ci portarono sul tetto d’Europa.
Comunque. Grazie Gigi Riva. Grazie Pietro Anastasi.
da Daniele Marantelli, editoriale de La Prealpina, 10 giugno 2018